Spesso la gente ha paura di mettere a mano questo romanzo perché teme la paura horrorifica che possa suscitare (dettata più che altro dai commenti dell’epoca sul film); in realtà c’è molta più profondità di quanto horror si possa immaginare. I personaggi e i dialoghi colpiscono per il modo preciso e controllato usato da Blatty, andando a scandagliarne fragilità ed impotenze attraverso una descrizione pulita, cruda ed oggettivamente magistrale. La trama ossessiva oscilla tra la volontà di rifugiarsi nel porto sicuro delle spiegazioni razionali e plausibili (isteria, autosuggestione, schizofrenia) e il terrore di trovarsi al cospetto del vero Male, del demonio, di ciò che si riteneva fossero soltanto antiche superstizioni. Semplicemente è successo che la tenera Regan, una normale ragazzina, un giorno si è trasformata in un’altra persona. Per questo il testo è ancora così conturbante, perché al termine della lettura restiamo con la sensazione che possa accadere a chiunque. Perché il libro non parla di mostri o altre creature mitologiche tipiche del genere, bensì del Male che si insinua in un contesto quotidiano, e che trova terreno fertile nelle nostre debolezze, insignificanti rancori, malintesi, parole taglienti. Chiudo con una frase di Padre Merrin che mi ha colpito in modo particolare, quando dà una semplice spiegazione sul comportamento umano ai dubbi di Padre Karras: «So che tutto ciò può apparire molto ovvio, Damien, lo so, ma in quel tempo io non riuscivo a vederlo. Curiosa cecità. Chissà quanti mariti, quante mogli credono probabilmente di aver cessato di amare soltanto perché i loro cuori non battono più così rapidamente come un tempo alla vista della persona amata.»