Mia moglie l’ha portato a casa e mi ha attirato la presentazione posta in copertina che lo indicava come una storia epica. Altre recensioni che ho letto in giro per internet lo esaltavano alla stessa maniera.
Il titolo “La strada di casa” è l’ennesimo esempio di traduzione di titoli all’italiana, con la pretesa di dire qualcosa di più e l’immancabile rimpianto per il mancato rispetto dell’originale. Il vero titolo è “Where You Once Belonged” ovvero: il luogo dove vivevi (o: si viveva) tempo fa.
Letto in un giorno, praticamente in 6 ore, la trama e lo svolgimento catturano l’attenzione.
La prosa è senza fronzoli, scorre e si fa leggere piacevolmente, buono lo scavo psicologico e notevoli certe descrizioni minimaliste. Questo fino ad una quindicina di pagine dalla fine.
Quello che mi ha fatto infuriare è il finale. Un po’ come se un amico (perché questo è lo scrittore) ti raccontasse una storia piacevole ed interessante per alcune ore, poi, tutto d’un tratto, si accorgesse di avere altro da fare e chiudesse il racconto in maniera frettolosa e stupida, masticando chewing gum con fare sciatto e fastidioso mentre parla, lasciandoti non tanto un senso di incompiuto, ma di aver irrimediabilmente sprecato il tuo tempo nello stare ad ascoltarlo.
Un finale che non è aperto, ma semplicemente monco. Evidentemente l’ambizione dello scrittore era quella di lasciare il classico pugno nello stomaco al lettore (la classica ambizione di ogni scrittore per cui il proprio romanzo deve lasciare il segno per non cadere nell’oblio e restare “un libro tra i tanti”).
A certi scrittori americani è rimasto il chiodo fisso del neorealismo italiano come espressione artistica eccelsa. L’esaltazione dei vinti alla Verga, per intenderci, un filone letterario che ho sempre trovato a dir poco urtante.
Giustissimo chi sostiene la più totale libertà dell’artista nell’elaborazione della sua opera, ma altrettanto libero io, come lettore, di mandarlo a quel paese e rifiutare di leggere una altro dei suoi prodotti con la prospettiva di restarne disgustato una volta ancora.
Il resto del commento può costituire spoiler.
Avrei atteso, come logico finale, un linciaggio oppure qualche gesto osceno o comunque degno di nota, invece tutti i partecipanti della storia si lasciano sopraffare come tanti fessi dal villain che opera sempre indisturbato. Trovo del tutto irrealistico che in un’America dove la violenza da far west è tutt’ora endemica, ci sia spazio per i personaggi descritti nel romanzo dotati unanimemente di una passività insopportabile. Vorrei vedere, per ipotesi, se Zonin venisse a Vicenza e si muovesse non scortato, davvero nessuno proverebbe a vendicarsi in qualche maniera?
Il finale in cui sia il narratore (di colpo trasformato in un patetico Fantozzi) che le vittime del villain stanno a braccia conserte a subire non ha alcun senso. Finché è il ladro che scappa (da solo ed in maniera del tutto inattesa) senza lasciare traccia siamo nel plausibile. Il finale, invece, presenta una persona, già capace di affrontare enormi difficoltà in autonomia, che si fa sequestrare (lei e due figli) senza alcuna reazione e senza lasciare traccia alcuna, una situazione talmente inverosimile da apparire come un escamotage di bassa lega dell’autore per tentare una chiusura ad effetto penosamente riuscita.