Il segreto contiene sempre qualcosa di necessario e contemporaneamente di violento. Questo stato di necessità, indispensabile alla vita - che saremmo ognuno di noi, senza i nostri segreti? - è spesso portatore di morte se usato come un corpo contundente che può distruggere la vita degli altri e che fa tanto più male quando non serve a nulla se non a far realizzare a chi lo ascolta, che la sua vita fino a quel momento risulta disperatamente falsa. Un sovvertimento di senso che destabilizza e vissuto come una rapina del proprio passato.
Si apre una voragine che non può che riempirsi di odio.
Ma il segreto può essere anche rimozione, trasformazione di pezzi di vita in tabù di cui non si può nè si deve parlare. Un altro buco nella mente.
Marias sviluppa tutto il potenziale dell’ambiguità del segreto, del suo occultamento o del suo svelamento in modo doppio. Sul piano delle relazioni familiari in una storia che tiene incollati fino all’ultima pagina, con colpi di scena, rivelazioni ad alto suspance. Lo fa usando una struttura alla Agatha Christie: un ‘maggiordomo’ interpretato dal giovane scoptofilo Juan in realtà un neo-laureato che aiuta il lui della storia, un regista cinematografico e che origlia, spia, pedina la lei della storia, bella donna quasi nulla facente che vive all’ombra del marito. È lei che svela il segreto gettato in faccia come acido muriatico, di cui sconterà una pena ergastolana. E Juan prende nota, ricorda, riflette, interpreta. Si fa cantore di riflessioni sul senso del matrimonio, sull’inevitabile decadenza degli affetti nei legami sentimentali.
L’altro piano è quello creato dalla forzata amnesia di Stato, introdotta dalla legge sull’amnistia della violenza franchista dopo la morte del dittatore; che se da una parte ha impedito la giustizia ‘fai da te’ dall’altra ha avvelenato la vita di milioni di spagnoli che hanno ricostruito il dopo Franco sul ‘come se’, affaticati da un bisogno di oblio non sempre possibile. Qui una carellata di personaggi interessanti intrecciati in legami vari e tratteggiati anche con leggerezza e senso dello humor, che è quasi una novità per Marias.
I due piani si intrecciano e raccontano storie appassionate nel linguaggio denso, barocco, ricamato e fascinoso dello scrittore spagnolo.
Due pensieri personali.
Il primo sullo scrivere di Marías che per gusti personali risulta piacevole perchè la sovrabbondanza a me solitamente non disturba. Anzi.
Ma lui esagera! Lo da a mio avviso quando applica in modo manieristico, insistito e rigido la regola del tre. Tre sono sempre gli aggettivi che sciorina ad ogni descrizione e lo fa in modo così prevedibile da essere irritante. Poi sono certa che sotto sotto abbia una rigida struttura mentale di tipo ossessivo: la congiunzione più frequente che travate sono dei fastidiosissimi ‘o’ come se non riuscisse a decidere.
Suvvia Marías, sei tu l’autore decidi se è una cosa o l’altra.
Il secondo pensiero è su questa figura di donne dipendenti stereotipizzate che cominciano a venirmi a noia. La letteratura - quella alta, colta, bella - è maschile e lo si sente. Ho voglia di visioni nuove; di figure femminili diverse. Il mondo cambia e l’impressione che mi rimane è che la letteratura arranchi. Questo pensiero mi e venuto ascoltando un concerto “Il suono delle Dolomiti” ai piedi di un maestoso Latemar con un trio di jazzieste. Tutte donne, una straordinaria pianista giapponese, una contrabbassita italiana e una percussionista irlandese. Brave, ironiche, una forza della natura.
Scrittrici, scrittori stupiteci!
Però in conclusione: un libro da leggere.