Fëdor Konstantinovič prendeva atto con stupore e irritazione dell'impossibilità di fermare i propri pensieri sull'immagine dell'uomo che era appena stato ridotto in cenere e si era volatilizzato in forma di fumo; cercava di concentrarsi, di far rivivere il recente calore dei loro rapporti di esseri vivi, ma l'anima si rifiutava di muoversi e restava dov'era, assonnata, con gli occhi socchiusi, contenta della propria gabbia. Un verso sincopato del Re Lear, composto unicamente da cinque never, — ecco tutto ciò che gli veniva alla mente. «Non lo rivedrò mai più» diceva a se stesso senza alcuna originalità, ma quella piccola verga si rompeva senza riuscire a smuovere l'anima. Cercava di pensare alla morte, e invece pensava che il cielo morbido, bordato sulla sinistra da una nuvola pallida e tenera come grasso, avrebbe ricordato una fetta di prosciutto cotto se l'azzurro fosse stato rosa. Cercava di immaginarsi una sorta di prolungamento di Aleksandr Jakovlevič dietro l'angolo della vita — e non poteva fare a meno di notare che dietro le vetrine della lavanderia-stireria sotto la chiesa ortodossa qualcuno stava torturando con diabolica energia e dovizia di vapore, come all'inferno, un paio di calzoni da uomo appiattiti su un'asse.