Diretto, essenziale, affilato, spietato e realista.
Questi sono i primi aggettivi che mi si prospettano dopo la lettura di questo ultimo, bellissimo romanzo di Tahar Ben Jelloun.
Non reggo più la retorica, il buonismo e la melassa imperante e qui “il miele e l’amarezza” restituisce la cifra più profonda della realtà.
Amore e morte, razzismo, corruzione, stupro, vergogna, dignità, e … pietà.
Nell’ultimo tratto di vita, verso la morte, in poco più di 200 pagine l’autore riesce a toccare temi fondamentali quali:
· la sofferenza per una convivenza forzata all’interno di un vincolo matrimoniale che si intende rispettare per cultura e tradizione, per inerzia e convenzione sociale, anche se fonte della più disperata solitudine;
· la vergogna di dover accettare e praticare la corruzione in una società ed in un paese che non lascia alternative, una corruzione ed una genuflessione al dio denaro che corrode l’anima, senza possibilità di salvezza e redenzione;
· lo stupro da cui non ci si salva, perpetrato su una giovane donna che crede in un mondo in cui la poesia abbia un ruolo salvifico e che anela ad essere letta da altri, anche nel ristretto contesto di un modesto giornale locale;
· il razzismo e l’intolleranza non solo verso gli immigrati di colore, ma persino verso le possibili variazioni di “nero” (mori e neri nella Mauritania);
· la vecchiaia, l’umiliazione del decadimento fisico, del progressivo disfacimento del corpo, e l’attesa della morte intesa come fine delle sofferenze.
Il tutto si svolge in Marocco, ma ha una portata ed attualità universale.
Le vicende della “vecchia” coppia costituita da Maroud e Malika, dei loro figli Adam, Macef e Samia, del loro “badante” Viad (acronimo inventato dal medesimo a significare “Vita Impossibile senza Amore e Dignità) si dipanano in un racconto corale, polifonico di straordinaria forza, con uno stile semplice, lineare, sintetico e, al contempo, profondo, essenziale, affilato. Tracciando un percorso individuale e collettivo incentrato sulla difficoltà di amare, sul ruolo fondamentale del perdono e della pietà salvifica (giusto al termine del percorso narrativo ed umano), come scrive Samia in una delle sue poesie (pag. 169):
“I figli del vento/Attraversano la notte/Sulle palpebre delle giovani ragazze/Il cui segreto è sepolto in un frutto estivo/Ne è il nocciolo/Il miele e l’amarezza”.
Ogni personaggio ci propone le sue riflessioni e la sua visione dei fatti:
· Maroud, che si rifugia nei libri e non sa opporsi alla trappola delle convenzioni, alla scelta obbligata della corruzione, che non sa difendersi né difendere il suo nucleo familiare e che, alla fine, ne sente la mancanza.
· Malika, che è succube della sua religione e al tempo stesso violenta verso chi le sta accanto, recuperando dolcezza e compassione solo nel momento del trapasso.
· Samia, che pensa di prendere le distanze dal fallimento di coppia dei genitori scrivendo poesie e cedendo a una prevedibile violenza fisica e morale nel momento in cui accetta di frequentare un losco individuo che la stuprerà solo per vedere pubblicate le sue poesie (la chimera della visibilità ad ogni costo), non reggendo poi alla vergogna.
· Viad, che da guardiano del cimitero si trasformerà in badante per la “coppia malata”, lui che dotato di cultura è stato costretto a lasciare il proprio paese, migrante e nero, e che alla fine farà del Marocco la sua nuova terra rifiutando la migrazione verso l’Europa che potrebbe pagare con il lascito di chi ha aiutato a morire con rinnovata dignità.
in uno dei romanzi più belli, toccanti, profondi letti in questi ultimi tempi.
Blue Tango