Un Rodja Raskolnikov in chiave moderna: portato dal caso, più che dalla premeditazione, a rendersi complice di un delitto, Sherman McCoy si ritrova ad affrontare la parabola discendente che lo porterà dai fasti di Wall Street ai Tribunali del Bronx, annientando la sua convinzione di esser un superuomo e portandolo ad una profonda desolazione emotiva.
Credo che Tom Wolfe abbia tratto più di un’ispirazione da Dostoevskij. Il tema del “superuomo”, la scoperta della propria vulnerabilità emotiva, il forte realismo con cui viene descritto il processo psicologico che porta, in McCoy, al sentirsi una “cavità aperta”.
Tom Wolfe è bravissimo ad evocare persone e situazioni. Presenta i suoi personaggi con tutte le loro ossessioni, debolezze, paure, vanità, e poi li incrocia in un continuo cambio di prospettiva narrativa che permette al lettore di vederli “da dentro” e “da fuori”. Anche l’ambiente circostante viene descritto in maniera puntigliosa, con notevole dispendio di pagine che talvolta finisce per appesantire la lettura ma, che dire, la genialità di Wolfe sta proprio nel realismo descrittivo che ti fa divorare anche quelle pagine che poco aggiungono alla trama.
Il finale, come verrà ribadito in Charlotte Simmons, celebra il trionfo del materialismo ed edonismo della società contemporanea premiando coloro che hanno saputo approfittare con freddezza delle opportunità del caso.
Amo molto Wolfe e ne consiglio la lettura.