Di Veronica Raimo non avevo mai letto nulla.
Di suo fratello, Christian, mi era capitato sotto gli occhi “Tranquillo, prof. la richiamo io” e, sebbene il romanzo mi fosse piaciuto, mi era rimasta dentro, in fondo, una tristezza cosmica universale da far impallidire il Leopardi del Ciclo di Aspasia.
Con “Niente di vero” è andata uguale.
Ho riso? Sì, e sorriso, spesso.
Mi ci sono ritrovata? Sì, frequentemente.
È scritto bene. È un vortice ironico, sottile di racconti autobiografici sparsi.
Veronica prende sottobraccio il lettore come nella scena de “Il meraviglioso mondo di Amelie”, quella del cieco per strada, e ci fa fare un giro nella sua vita, nella sua famiglia. Vorticoso, irriverente, a tratti decisamente spassoso.
Ma la percezione complessiva è che la danza si svolga su un filo di lana sotto il quale si apre un abisso di insicurezza, rassegnazione, e, vorrei dire, cinismo.
Non lo so, forse è il ritratto perfetto della mia generazione: sopravvissuti alle aspettative irragionevoli degli adulti che pretendevano da noi una rivincita assurdamente personale; troppo consapevoli, ormai, dopo 70-80 anni dall’apparizione della psicanalisi nella cultura occidentale, di tutti gli anfratti inconsci che ci avrebbero paralizzato e stortato lentamente da dentro; faticosamente alla ricerca di alternative altrettanto stabili alle certezze religiose, politiche, tradizionali dei nostri genitori e nonni.
Lanciati senza paracadute in un mondo molto più grande, imprevedibile e mutabile di quello di chi ci ha preceduto, il meglio che abbiamo saputo fare è stato muoverci con sgargiante energia in cielo, prima di aggrapparci a qualche spuntone o ramo d’albero per non schiantarci al suolo.
In definitiva, forse, aveva ragione il padre di Veronica: “siamo arrivati al paradosso.”