Hopkirk sa il fatto suo e racconta la storia della conquista del Tibet, stato proibito agli stranieri, da parte dei britannici prima e dei cinesi in tempi più recenti. Questo territorio vasto, disabitato e ostile, in cui sopravvivevano usi e comportamenti definiti medievali a causa del sistema feudale, ma che in realtà risentivano dell’enorme influenza dei lama, una casta che conosceva benissimo il potere temporale, era ambito dalle grandi potenze mondiali e da intrepidi esploratori. Mentre la politica mirava a preservare o espandere le proprie sfere di influenza, inviando spie per tracciare mappe e raccogliere notizie, i viaggiatori erano mossi da una insaziabile curiosità per questo luogo proibito del quale si favoleggiava ma di cui si conosceva molto poco. Hopkirk racconta i tentativi messi in atto dagli Stati e dai singoli per arrivare fino a Lhasa, la città santa dominata dal maestoso Potala, storie di persone dalla tenacia straordinaria che affrontavano la cruenta ostilità dei locali e la rigidità del clima himalayano. A mio parere questo libro, che pure ho apprezzato molto, non regge il confronto con Il grande gioco, e a volte diventa quasi ripetitivo nel descrivere le diverse spedizioni nel territorio tibetano, tuttavia regala squarci illuminanti sulla società e sulle credenze tibetane. Non sapevo ad esempio quanto fosse pericoloso essere riconosciuti come la reincarnazione del Dalai Lama, vista la numerosità di avvelenamenti nei confronti dei giovani pretendenti, o la pratica di far scontare ai servi le colpe dei padroni, o ancora il sistema feudale di arruolamento dei miseri contadini/pastori. I cinesi hanno giustificato l’asservimento del Tibet e lo sradicamento delle tradizioni e della cultura tibetana con una presunta “liberazione” dallo strapotere della casta sacerdotale che manteneva in schiavitu la popolazione, ma (anche) leggendo questo libro rimane un senso di profonda tristezza per l’intrusione di potenze straniere in questo paese e per la distruzione che ne e’ seguita.