Di fronte alla scelta di recensire "Bartleby, lo scrivano", di H. Melville, ho pensato: "Preferirei di no". Questo non per retorica, ma perché ricordare il racconto di Bertleby è angosciante: rende tristi. La tristezza è motivata dallo s-conforto, cioé dall'assenza di una qualsiasi modalità umana di integrazione di chi ha deciso, con dolce pre- e de-ferenza, di assentarsi dal mondo umano, per ragioni a tutti oscure e, delle quali, l'ipotesi presentata alla fine del racconto, potrebbe essere soltanto una razionalizzazione del nulla creata dal narratore, o da noi lettori. Bartleby non è ri(con)ducibile a nessuna logica: ha travalicato l'esser(ci) nel mondo, per, in questo, posarsi, declinando ogni impegno e segnalandone la nullità intrinseca, attraverso il tenue "Preferirei di no". Il 'no' è netto, seppure addolcito e rispettoso. E rende ancora più intensa la negazione dell'azione dell'anti-eroe melvilliano. Anzi, più che di anti-eroe, che, in quanto tale, pur 'fa' qualcosa nei termini di un proprio, discutibile o meno, disegno nel mondo, Bartleby si colloca oltre le categorie dell'eroe; si colloca tra i "morti in vita" di Samuel Taylor Coleridge (cfr. "The Rime of the Ancient Mariner"), tra coloro che si fanno incubatori degli incubi del mondo moderno (il sottotitolo del racconto è "Una storia di Wall Street"...), proiettandolo nelle loro menti e non lasciandone trapelare che un senso di orrore e di paura, non definibile e, quindi, non dicibile dall'uomo "di mondo" (il narratore di Wall Street), che, seppure perspicace e, quindi, conscio della presenza di un "mondo altro" dentro lo scrivano, non potrà far altro che, alla fine, cessare di sondarlo, per tenere ferma la ragione che tutto regge, che rende partecipi all'umano e, senza la quale, 'è preferibile' non vivere.