La scrittura che non serve l’indagine, ma la rappresentazione “illustrata”, dovrebbe avvalersi di una varietà multiforme e policroma di elementi scenici che, seppure suggestivamente allusivi, nel prestarsi al vigile occhio della mente del lettore cerchi di scansare il rischio pernicioso - soprattutto per chi scrive non uno o due pugni di romanzi ma una miriade di racconti - delle sovrapposizioni di immagini e tematiche.
Non c’è peggior nemico della ripetitività per il piacere della lettura. Cheever è (dannazione!) il re della ripetitività.
Non è una mancanza di originalità a dare ridondanza ai suoi scritti, è il nauseante egocentrismo che guida la sua ispirazione. Già dopo pochi racconti comincia a trasparire in filigrana la figura saggia e uggiosa di Cheever con la sua ingombrante e tormentata vita. Una miriade di Cheever si susseguono fondendosi in un unico individuo, uomo solitario morbosamente occupato a masturbare il proprio dolore, troppo preso dall’auto-commiserazione per preoccuparti realmente di chi gli sta intorno. Non è necessaria la perizia dello psichiatra che lo tenne in cura per rendersi conto che Cheever è stato, per usare le stesse parole del dottor David C. Hays "un uomo nevrotico, narcisista, egocentrico, senza amici, e così profondamente coinvolto dalle proprie illusioni difensive che ha inventato una moglie maniaco-depressiva".
Non mi si fraintenda o accusi di impazienza, ad ogni autore è concesso un margine di ripetitività, eppure Cechov, di cui Cheever ha ereditato il tratto di penna leggero e il rifiuto dei valori eroici, quanto mi è mancato una volta conclusa la sua raccolta di 69 racconti! E quale sorpresa ad ogni sua nuova storia!
In ¾ dei racconti di Cheever troviamo: il protagonista prototipo cheeveriano, padre di famiglia insediato in grigi sobborghi, insoddisfatto, irrequieto, affranto, depresso, frustrato, oppresso da un malessere costituzionale che le piccole o grandi disgrazie occorse scovano dal guscio interiore anziché esserne la causa. L’alienazione, la solitudine, i perigli della mente sadomasochistica e le forze beffarde del destino che tramano per trascinarlo nel baratro della miseria; squallore, fallimento, licenziamento; le mogli casalinghe disperate, ostili lamine sagomate taglienti al tatto, che piangono, piangono, piangono su matrimoni di cartapesta che si spappolano alle prime difficoltà (mi balza in mente la parola misoginia, ma la più adatta dovrebbe essere, se mi è concesso inventare parole, "misuxoria"). Divorzio? Subito, nulla di più facile! I figli, sempre puberi e prepuberi, oggetti scenografici sullo sfondo di tanto in tanto tinti di una pennellata color malva; il mare, le nuotate, l’alcolismo, Shady Hill, e poi Roma. Con l’ingresso di Roma e Napoli si comincia a respirare la calda, molle, luminosa aria italiana, sopratutto nuova, di lì a breve divenuta anch’essa stantia nel serializzare un altro prototipo cheeveriano: l’emigrato, lo spiantato senza patria.
Splendide suggestioni, sì, se le reiterazioni non le svuotassero di senso.
I saggi consigliano di scrivere di ciò che si conosce, ma senza il coraggio di osare affidarsi alla propria immaginazione quanti grandi storie non sarebbero state scritte?
E dopo aver scaricato fango non posso non parlare della prosa alata, come una libellula screziata di bagliori verdi e viola che disegna anelli sulla superficie dell’acqua per poi sfuggire allo sguardo con guizzi sorprendenti prima di riprendere la meditabonda fissità aerea.
I racconti dell’ultimo periodo, in cui l’economia narrativa dell’autore raggiunge il suo picco, paiono volersi svincolare dal solito schema, violato da personaggi che testimoniano lo stupore dell’impossibilità di essere felici. Felicità sporadica, che va scovata nella contemplazione della bellezza, in una vetrata che getta spicchi di luce colorata sulla banchina di una stazione ferroviaria, nella pioggia silenziosa di Roma, in una fresca nuotata in mare. (il racconto "Il nuotatore" merita la sua fama).
Devo confessare che alcune volte (poche, giuro), alle prime avvisaglie del solito prevedibile andazzo, ho scartabellato interi racconti. Una lettura faticosa e snervante che, pur con i suoi pregi, non ripeterei.