Da: “Il Silenzio della ragione” – Storia del funzionario Luigi
Adesso non faceva più nulla, ma vi era stato un tempo, subito dopo il ’45, a Napoli, ch’egli era stato al centro della pubblica attenzione, riconoscendo tutti nella sua prosa agile e sfrontata, nella scherno e l’ira di cui erano irti i suoi scritti, il segno di una Napoli diversa da quella che finora ci avevano rappresentato classici antichi e moderni, non più ridente e incantata, o tambureggiante e grottesca, ma livida come una donna da trivio sorpresa da un subitaneo apparire della ragione. Non solo quella brutta poesia ch’egli pubblicò in “Sud: giornale di cultura” fondato dal ragazzo Prunas:
Questo è la mia città senza grazia
cosa che non aveva detto alcuno, dal principio dei tempi, parlando di Napoli, su cui pesava la favola di una felicità enorme, ma anche racconti e articoli pubblicati un po’ dappertutto recavano il segna di questa coscienza, un barlume, s’intende, ma bastevole ad accendere la speranza. In quel tempo, il Compagnone era comunista, come del resto tutta la più tenera gioventù di Napoli, affinatasi nelle cellule segrete del Guf. Era corso subito a iscriversi in quella squallida sede di Via Galiani, una volta partiti i tedeschi, con la scrupolosità del cittadino che, rasa al suolo la città, ma ammutolite finalmente le batterie nemiche, s’avvicina a quei pozzi che spera non infetti, per ricominciare la vita. A momenti dava persino noia col suo entusiasmo, ma non poteva non intenerire; e durando e diffondendosi la fama di quella sua intelligenza, di quel suo ridere così disperato, pieno di un tremito di cieli infranti, la sua casa fu presto come una guarnigione, in stretta comunicazione di quella del ragazzo Prunas, posta nella roccaforte dell “Nunziatella”, dove il padre del Prunas dirigeva quell’antica scuola militare. Intorno, Napoli era quella ch’è noto, una colata lavica di pus e di dollari, l’Americano aveva sostituito il Borbone, e bastava sentir dire ochei, perché dalla Vicaria a Posillipo tutti i cuori tremassero, e in queste due case, che in realtà erano una sola, se ne profittava per stendere, forse ingenuamente, ma con un impegno evidente, le prime linee di quella scuola della Ragione, che, altrove, aveva già purificato i paesi, e alla cui mancanza, qui, era dovuto il profondo sonno e la dispersione della coscienza. Si voleva sapere tutto, capire tutto di questa mostruosità che, alla luce degli ultimi fatti, appariva Napoli; rimuovere la lapide finissima che posava sulla sua fossa, e cercare se, in quella decomposizione, rimanesse ancora qualcosa di organico. Si pronunciavano per la prima volta, nella tradizione locale, parole come sesso in luogo di cuore, sifilide in luogo di sentimento, e ossessione come ispirazione. Si scopriva non esservi un popolo, al mondo, infelice come il napoletano, e infelice perché malato; si cercavano le cause di questa malattia, definivano i modi di questa infelicità, e smontando senz’altro il mito dell’allegria, e ravvisando in quelle esistenze, in quei canti, una convulsa desolazione, il lamento dell’uomo perduto nell’incanto e l’incoscienza della natura, dominato e succhiato continuamente da questa madre gelosa; incapace ormai di coordinare i propri pensieri, comandare ai nervi, e muovere un solo passo meno che barcollante; prendere viva parte alla storia dell’uomo, anziché esserne continuamente oppresso e umiliato: se ne indicavano le conseguenze e studiavano i sistemi per liberarlo da una schiavitù così grave. Fin dal primo momento, era stato chiaro che la cultura, intesa come conoscenza e quindi coscienza, specchio dove fissare la propria immagine, fosse il più indispensabile. Bisognava rimuovere dall’opinione pubblica il mito terribile del sentimento, chiarendo tutte le alterazioni e deformazioni cui esso aveva condotto l’odierna società partenopea; sottrarre alla sua vista, finché le condizioni generali non fossero migliorate, i cieli di Di Giacomo e Palizzi, proponendo e magari imponendo le manifestazioni di un’arte arida e disperata. Su questo, spiriti profondamente liberali, anche se, taluni, devoti alla fede marxista (ma non bisogna dimenticare che il comunismo, a Napoli, in quegli anni, era un liberalismo di emergenza), come il Compagnone, il Prunas, il Gaedkens, il La Capria, il Giglio, il Ghirelli e altri, erano d’accordo con veri e propri militanti, esseri intellettualmente inferiori, e incapaci di una indipendenza laica, aggrappati all’idea di uno Stato Universale, che avrebbe dovuto sostituire le diverse Chiese nella reggenza dei popoli. Ma l’ansia di acquistare nuovi aderenti, e anche certo slancio e generosità propri degli uomini che hanno sofferto a lungo la solitudine, portava questi funzionari a stringere la mano a quei rivoltosi, con un sorriso e un silenzio che, da quelli, venivano interpretati come vera e profonda simpatia. E ciascuno dalle sue barricate, questi funzionari dalla redazione della “Voce”, e quei giovanetti dalle stanze del “Sud”, ch’erano in Viale Elena e dietro il cortile della “Nunziatella”, parvero quindi, per qualche tempo, lavorare a un medesimo scopo, anche se con mezzi e linguaggi diversi.