Neanche il fatto che è napoletano mi distoglie dal mio brutto vizio di leggere tutti i libri di un autore (tranne quelli veramente brutti, certo. Sono masochista, ma ogni limite ha una pazienza!).
Uno dice: "e perché? Dovrebbe anzi suscitarti un moto di commozione, il calarsi in paesaggi conosciuti e ritrovarci passaggi vissuti di già. Di già. E' proprio questo il problema. Soprattutto se non ci siete mai stati, nella mia città. Un luogo-non luogo del quale si è detto di tutto, dalla "A" alla "Z" passando per tutta una serie di consonanti e vocali, doppie, triple, struscianti, mozzate che rendono questo posto irraccontabile.
E, come se non bastasse, in cosa sono inciampata? In un libro che parla di un popolo e del suo legame ad un topos che è il cuore del cuore, la passione inspiegabile ed inspiegata, una fede ed una scaramanzia: il calcio.
Sì, il calcio, quello sport che una volta constava delle sole partite del Campionato, con rari momenti extra (qualche coppa europea, i mondiali, le Olimpiadi). E già così era un delirio. Oggi, che le coppe sono esplose ed il business è centuplicato, pensate la mia difficile vita nel quartiere dove è stato costruito lo stadio, dove un tempo pascolavano le pecorelle (parliamo degli anni '60) ed appena 10 anni dopo, il boom edilizio (le mani sulla città) ha fatto esplodere un quartiere.
Con queste premesse c'era poco da stare allegri ed ovviamente la lettura era pregiudicata dal senso di fastidio e sindrome del sequestrato (perché tale è stata la mia condizione le domeniche della partita in città) che nulla di buono presagiva.
Le prime pagine non depongono bene. Troppo folklore, troppi dejà-vu, troppo trito e ritrito. Già mi vedo precipitare nel buco nero della perdita di tempo, quando... incredibilmente mi sento tutto ad un tratto sdoppiata. La me stessa insofferente e stanca lascia il posto alla lettrice curiosa, quella col libro in mano che legge ovunque, estraneandosi dal circostante, perfino dalle sirene spiegate intrappolate nel caotico traffico di un incrocio "a croce uncinata" (come fa dire Luciano De Crescenzo ad uno dei suoi personaggi dei film).
Ed accade il miracolo. Quello di San Gennaro. Quello da cento punti.
De Giovanni affida ad un professore, alle soglie della pensione, che vuole scrivere un libro completamente diverso e lontano dalle dissertazioni accademiche di una vita lavorativa, il compito di sondare ed analizzare le tipologie umane della città attraverso il legame che hanno con lo sport per eccellenza: il calcio, appunto.
Nel bar di Peppe, punto nevralgico della parte storica della città, mentre il professore sorseggia un caffè o mangia una sfogliata, può assistere ad una sfilata di personaggi, di storie, di emozioni e scaramanzie al limite fra il sacro ed il profano. Storie che non hanno confini, né temporali né geografici, storie che richiamano ricordi, amori, legami di amicizia, morti premature, famiglie fatte a pezzi dalla vita e ricucite grazie ad una partita di calcio.
E' nelle catalogazioni affilate delle tipologie umane, nei duetti teatrali che stemperano gli sgambetti del destino, nelle locuzioni lungamente descrittive che riescono a spolverare con pagliuzze di poesia perfino le categorie sociali più popolari che De Giovanni mi strappa il sorriso di chi conosce troppo bene la realtà che mi presenta.
E nonostante tutta la rabbia, la stanchezza di giornate infinite a combattere contro questa anarchia scombinata ed inconcludente, rissosa e chiassosa, violenta e spietata, giro l'ultima pagina tutto sommato grata. Perché anche se andrò via da questo caos sfiancante ed incivile, porterò sempre dentro di me i colori di una terra, di un mare, di un calore che non potrò e non vorrò mai estirpare dal mio cuore.