Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura de “l’inverno del nostro scontento”. Ho atteso che le parole di Steinbeck (e del protagonista Ethan Hawley) sedimentassero, maturassero.
Questo romanzo mi appare come un cielo notturno, fittamente costellato di storie, sentimenti, ricordi e rapporti umani. Ed è come se ciascun personaggio fosse guidato nelle azioni e nelle intenzioni dalle proprie stelle. Ciascuno, in modo più o meno consapevole, è influenzato dai propri natali, da ciò che ha seminato nel corso della propria vita, dalle relazioni con le altre persone. Qualcuno insegue stelle più luminose mentre per qualcun altro rimangono soltanto tenebre e un pallido ricordo della luce di un tempo.
La narrazione i dialoghi sono cesellati magistralmente per ricreare un quadro dettagliatissimo, una situazione precisa, una fitta rete di rapporti e relazioni. L’azione e gli eventi potrebbero apparire, per gran parte del libro, quasi marginali, accessori ma risultano invece assolutamente fondamentali nella creazione del grande quadro ideato da Steinbeck.
La scrittura di Steinbeck in questo romanzo è una vera e propria analisi psicologica. Una discesa costante, lenta e precisa nelle profondità più nascoste, nel motore più intimo delle nostre azioni. Il tutto avviene con un tono lieve, come una carezza, ma che è al tempo stesso avvolgente ed inarrestabile come una brezza notturna. Da ciascuna parola, da ciascuna azione anche la più frivola, può emergere un significato profondo, dirompente come la marea dell’oceano che lambisce la piccola cittadina del New England in cui si svolgono i fatti.
Steinbeck tratteggia il degrado, la crisi etica e morale di una società che travolge inesorabilmente anche un uomo comune, Ethan Hawley, che si accontenterebbe di vivere una quotidianità semplice, tranquilla. Un uomo che ha la lucida consapevolezza di cogliere l’ipocrisia e la meschinità di una società malata.
“Lei è un bravo ragazzo” non manca di ripetere Alfio Marullo, il suo datore di lavoro.
Ma quando le tenebre avanzano non risparmiano neanche il cielo di Ethan.
Dopotutto, Ethan vorrebbe soltanto poter far sì che la sua adorabile moglie e i loro figli possano camminare a testa alta e godere di tutti i beni che la società Americana comanda. E se poi gli Hawley, un tempo illustre famiglia, fossero finiti in rovina anche a seguito di alcuni torti subiti. Torti dettati dalla rapacità di altre rampanti famiglie, dall’ambizione imperante, dalle circostanze. Sarebbe in questo caso giustificato Ethan ad ordire un piano per ottenere semplicemente quello che la società gli comanda di possedere ma non gli concede di avere?
E sarebbe Ethan maggiormente giustificato se volesse rifarsi proprio a discapito di chi è in qualche modo colpevole o concausa della sua condizione economica? Ed il suo stesso amico d’infanzia Danny non era ormai ridotto ad una larva d’uomo sempre a causa di quegli stessi uomini e di quelle stesse regole sociali?
“Uccidere per lenta, continua pressione è forse minor delitto di una rapida, misericordiosa coltellata?”
Ed è proprio lì, in quel momento, quando il cielo sembra essere soltanto tenebra e non si riesce a vedere più nessuna stella che, lontana, spunta una luce. Una flebile speranza, una possibilità di salvezza, di fuga da una spirale di azioni senza morale. Ed è per quella luce, e contro una marea che sembra soverchiante, che occorre lottare.
“Che cosa tremenda è una creatura umana, una massa di valvole, di quadranti, di registratori, e noi ne sappiamo leggere pochi appena, e quei pochi nemmeno con precisione.”