Come nel Minotauro Dürrenmatt rovescia la prospettiva di osservazione e di analisi della materia mitica compiendo un'operazione di decostruzione impietosa e sistematica che, ad una prima lettura, può apparire soltanto ironica irrisione. La Pizia non è altro che una vecchia scettica e stizzita, sprezzante dei suoi stessi oracoli - sempre più “spavaldi e azzardati” - e della sciocca credulità dei Greci; le profezie sono sparse alla cieca a devoti ciechi, incuranti della loro verifica; il santuario una fruttuosa fonte di denaro amministrata dall'avido e cinico gran sacerdote Merops XXVII, occupato in grandi lavori di strutturazione del tempio e nei suoi intrallazzi con i potenti; le grandi storie di eroi, da Giasone a Eracle, facili da profetizzare, portano già in se stesse la loro tragica fine; la peste di Tebe è dovuta alla mancanza di una buona fognatura e non ad un castigo divino; per non parlare poi dei vaticini emessi ad hoc per favorire l'ascesa di qualche tiranno. Quando il giovane Edipo, pallido e claudicante, si presenta, all'ora di chiusura come in un negozio, la sacerdotessa irritata dalla domanda sui suoi genitori gli propina il responso che reputa più assurdo: ucciderà il padre e sposerà la madre. Un responso tragico che si avvera ed è da questo punto che il racconto subisce una svolta. Tutti i personaggi coinvolti nella vicenda vivi e morti, soprattutto questi ultimi, si presentano alla Pizia come ombre a raccontare la loro verità in un gioco di specchi, quasi pirandelliano, un così è se vi pare, che sconvolge e stravolge le narrazioni mitiche precedenti. Controcanto della Pizia è Tiresia, indovino asservito ai potenti ai quali deve fama e ricchezza; le sue predizioni, come quelle di altri veggenti, sono talvolta “passate” alla Pizia che deve leggerle al postulante affinché acquistino credibilità divina. Tiresia agisce in nome della ragione, i suoi vaticini sono manipolazioni a fini politici, quelli della Pizia sono casuali, dettati dallo stato d'animo del momento, senza nessuna considerazione per il richiedente, anzi talvolta in suo spregio, come accade per Edipo, punito per la sua credulità e per la domanda sciocca: nell'aristocrazia (da intendersi la tradizione mitica) non si contano i figli adulterini per comodità attribuiti ad intervento divino, Zeus in primis. Il senso di tutto questo breve racconto lo troviamo nelle ultime pagine, ed è un vero piccolo, scettico, trattato di filosofia della storia che si sviluppa attraverso l'ultimo dialogo fra la Pizia e Tiresia. La verità ultima degli eventi è sfuggente e difficile da accertare, tutto può essere o essere diverso. «Tu, Pannychis, vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda premeditazione, con logica ineccepibile, insomma: con razionalità. Ebbene, devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro». Il conflitto è fra coloro che credono che il mondo sia un organismo regolato da leggi e che possa essere cambiato; all'opposto stanno quelli che lo pensano dominato dal caso e lo accettano così come è: utopisti e pessimisti. Tutto scomparirà, dice Tiresia: egli stesso e la Pizia, Atene, Sofocle; solo resterà il quesito di Edipo: punito per trasgressione alle più sacre leggi del vivere civile, o vittima di un'alea capricciosa evocata da uno stravagante responso? Quel che resta, come sempre nelle vicende umane, non sono le risposte, ma le domande, eterne.