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Libro bello; a tratti molto bello.
Descrive il nostro “secolo breve” visto dalla prospettiva di una famiglia contadina emiliana che passando per la prima e la seconda guerra mondiale passa da una civiltà contadina – superstiziosa, magica, paurosa e conservatrice ma comunque sempre pronta al sostegno del più debole, all’inclusione (“La Clerice aveva sempre cura che il permesso di spigolare venisse dato a chi ne avesse veramente bisogno: le vedove o le mogli di disoccupati e ubriaconi buoni solo a metterle incinte. Pensava sempre alle donne la Clerice e, più che Domineddio, pregava la Madonna perché aveva patito e sofferto e aveva perso un figlio e sapeva che cosa vuol dire”). Nel cosiddetto Otel Bruni – una stalla dove non veniva negata una minestra al viandante che ne aveva bisogno, che portasse una storia, una canzone, o solo la preghiera di una mente malata. Una civiltà che, morta, non fa posto a un’altra che accoglie – e questo si vede nella figura della Desolina, morta assiderata davanti alla porta vuota.
Ma in fondo questa era una società che, come sempre, aveva al suo interno, il germe della sua morte: la famiglia Bruni ha nel corso della storia, due occasioni per uscire “vincitrice”, per cambiare la propria condizione di mezzadri. E non le prende. Per paura. Per timore del nuovo che non si conosce in favore del vecchio che, sebbene difficile, è noto. Non capendo che il nuovo comunque avanza, e non guarderà in faccia a nessuno.
E qui si apre una diatriba con chi il libro me l’ha consigliato: lui sostiene che la “colpa”, la causa principale di questa disgregazione della famiglia siano state le donne, le numerose mogli dei figli che entrano nella famiglia e portano disgregazione per invidie e gelosie. Sembrerebbe così ad una prima lettura: Manfredi scrive: “L’ingresso di tante donne aveva moltiplicato i motivi di attrito o di discordia. Ognuna credeva di vedere nelle cognate privilegi e vantaggi che lei non aveva o riteneva che il proprio marito non fosse tenuto nella dovuta considerazione, che qualcuno facesse molto e qualcun altro troppo poco. I mariti, dal canto loro, volevano apparire importanti e degni di considerazione agli occhi delle mogli e tendevano a dare peso a piccolezze, sgarbi involontari che prima avrebbero lasciato perdere o completamente ignorato. Per giunta la Clerice, indebolita dalle gravi perdite subite, aveva perso non poco della sua grinta e non aveva più il polso per reggere una tribù così numerosa”. Però, pochi capitoli dopo aggiunge “Vi fu chi disse che fossero state soprattutto le mogli a dividere la famiglia. A nessuna di loro era mai piaciuto fare la contadina, e a stare a pigione gli sembrava già di salire un gradino nella scala sociale. Gli uomini, invece, partirono con il cuore pesante perché, in fin dei conti, erano stati felici a vivere tutti insieme per tanti anni. Alcuni di loro avevano le lacrime agli occhi mentre lasciavano l’Otel Bruni, dopo più di cento anni che la famiglia vi era entrata per la prima volta”
Ecco secondo me tutto si racchiude in quel “Ci fu chi disse”: questa la spiegazione più facile, la cosiddetta vulgata: tante donne insieme portano scompiglio. Del resto l’usanza era che “quando una nuora entrava in casa, per un certo periodo di tempo non prendeva parola a tavola se la suocera non glielo chiedeva, ma la Clerice volle che le due ragazze si sentissero subito a proprio agio e concesse loro di partecipare fin da subito alla conversazione. Le trattava con affetto, ma in cuor suo la Silvana restava la preferita, forse perché l’aveva perduta, forse perché l’aveva vista assistere suo figlio con commovente devozione”. Io però ci vedo, in quel “chi vide” la lettura più profonda, di chi in fondo la storia la conosce e sa come si sviluppa: la società contadina, cooperativa, che viveva insieme in un’unica casa era destinata a morire per le cambiate coordinate economiche – e politiche di lì a poco. O si trovava il verso di creare le cooperative – e in questo l’Emilia Romagna in questo è stata maestra in Italia – o si trovava il sistema per diventare piccoli proprietari (ma questo per i contadini era più che impossibile economicamente a livello di forma mentis oppure quel tipo di struttura familiare – tribale – non poteva sopravvivere. Il fatto che si parli tanto di una faida tra i due fratelli descritta in una lettera andata persa, e che neanche il lettore vede, mi sembra simbolico di questo.
Ultima notazione: l’unico elemento non molto positivo per me le lunghe – troooppo lunghe – descrizioni sia della vita delle trincee della prima guerra mondiale che le lotte delle Brigate Partigiane della seconda. Capisco che l’autore ami la storia e ci tenga a questo aspetto delle sue produzioni. Ma forse è meglio quando si ferma ai romani: dopo Lussu, Fenoglio, Pavese, la stessa Viganò…ecco, lì avrei accorciato un po’!