Simon Reynolds ha un difetto bellissimo: elabora una teoria, sintetizza una formula (per la gioia del "memificio" dei social), la fa diventare il polo magnetico su cui puntare la bussola, quindi parte come uno schiacciasassi in un escursus tutto inclinato verso il soddisfacimento e la solidificazione delle tesi che confermano appunto la teoria di fondo. Il rischio insomma era che questo ponderoso volume - oltre 600 pagine sul glam rock - diventasse un buco nero capace di divorare nella propria voragine tematica una trentina di anni di rock (e oltre). Ebbene, è andata quasi così. Ed è - appunto - bellissimo. Reynolds possiede le caratteristiche che ogni critico (o storico, come preferisce definirsi) del rock dovrebbe avere: una cultura vasta che sa spingersi ben oltre la bolla magica del rock e dintorni, un punto di vista assieme appassionato e disincantato, la capacità di mettere a fuoco e una penna agilissima. Caratteristiche che rendono divertente la lettura, e in quel divertente sono compresi l'intrigo, l'illuminazione, le perplessità, la delusione, la scoperta, un avventurarsi nel viluppo degli anni che si sviluppano come una successione di accadimenti, non necessariamente consequenziali ma ugualmente legati, e qui sta il lavoro dello storico, unire i puntini in modo da individuare linee di forza, abbozzare forme nel caos della Storia. Dal Regno Unito post-bellico che tenta di scrollarsi le macerie dalle spalle con lo skiffle e poi di inventarsi una realtà alternativa con la ricercatezza dei mods, si passa all'elaborazione pre-glam nel crogiolo hippie e quindi al coagulare di istanze teatrali, letterarie, cinematografiche e stilistiche che vedranno Bolan e Bowie protagonisti controversi ma assoluti. Una deflagrazione che sconvolgerà aspettative, forme e obiettivi, scoperchiando un vaso di Pandora genialoide e cialtrone, sempre comunque eccitante, così lontano così vicino a tutto quello che girava o girerà intorno, dal kraut alla wave al punk, per rovesciarsi su dark e new romantics. Un filo rosso meno musicale che estetico ed etico, uno stare sul palco come sulla parte più importante del vivere, vera chiave esistenziale che per qualcuno (vedi la parabola di un Brian Ferry) significherà reinventarsi completamente, riscattando le origini modeste col raggiungimento di una condizione in tutto e per tutto ideale. Rinascere, in pratica, come sogno di sé (anche quando tra sogno e incubo la differenza è, per così dire, labile). Una lettura che deve accompagnarsi - va da sé - con l'ascolto degli innumerevoli pezzi, album e artisti trattati, che siano Alice Cooper, Gary Glitter, Suzi Quattro, Mott The Hoople o gli Slade, per scoprire o rinfrescare la conoscenza di questa formidabile e scellerata corte dei miracoli. Non mancheranno le critiche, a cui un'opera di questo tipo non può sottrarsi: dal mio punto di vista spicca, ad esempio, la sostanziale assenza di riferimenti al movimento parallelo del power-pop, inoltre le pur ottime pagine che seguono Bowie e Eno nella trilogia berlinese sembrano a conti fatti esulare dal tema e rappresentare solo un trampolino per poter parlare degli strascichi glam successivi (nella new wave e nel new romantic), oppure per scrivere quel trattato su Bowie che Reynolds ha preferito evitare (ma non del tutto). In ogni caso, è una lettura essenziale per riflettere su cosa il rock è stato come impatto sul costume, sulla cultura, sul modo di pensare e vivere. Per capire i motivi e le meccaniche che lo hanno reso così importante. E, per contrasto, perché non sa esserlo più.