Da quando, all'interno delle restrizioni e delle zone-rosse, degli esercizi aperti o chiusi eccetera eccetera, hanno deciso che le librerie possono restare aperte, ci vado molto più spesso di prima. Cioè anche quella che si trova a 500 metri da casa mia è diventata un posto di vita sociale. Non puoi mangiare al ristorante, non puoi farti un aperitivo, i cinema sono chiusi, le mostre sono esclusive o non ci sono proprio, che diamine! Una libreria pare un posto importante e quasi figo. Il fatto è che, una volta entrato, mi sento in dovere di comperare qualcosa e, non sempre, ma capita che uno incappi in un grosso “pacco”quando acquista qualcosa che non conosce. È il caso stavolta di §I cieli di Philadelphia§ di Liz Moore, del quale la cosa di gran lunga migliore è la copertina che in giochi di sfumature di nero e grigi suscita un senso di mistero e di viaggio al cuore della notte. Dentro invece tanta noia, cliché a vagonate, situazioni viste e riviste così tante volte che ti viene voglia di ficcarti un dito in gola per emozionarti. I personaggi sono tutti descritti a tutto tondo, precisini, come se ad uno a uno la Moore facesse un cappottino, prendendo le misure, tutto è tagliato preciso, pesante, inutile. La protagonista è la classica eroina che non si sente eroina ma lo è: madre single al limite della perfezione, onesta, sincera e tutto il resto che conoscete riguardo ai personaggi positivi, fa la poliziotta in un quartiere difficile, senza genitori(la madre tossica è morta), ha una sorella tossica che vive nel quartiere difficile dove lavora la protagonista che a un certo punto scompare, ha un ex-partener che ovviamente è la summa del poliziotto perfetto: nero, intelligente, premuroso, generoso, onesto, diplomatico ma deciso, insomma uno che speri nella realtà esista, ma con il quale non andresti mai a bere una birra assieme. Il racconto della poliziotta si muove fra Presente e Passato(un passato nel quale ci svela, a puntate, la sua adolescenza e il rapporto con la sorella)ed è di una noia pazzesca, con tutta una serie di ricordi così artificiosi ma così didascalici che già al terzo non ne puoi più e non ne puoi più neppure di come ce li racconta la protagonista, anzi ti metti a sperare che qualche cattivo arrivi, le pianti una pallottola alla nuca per farla tacere.
Sono arrivato a pagina 138 ma non ne posso letteralmente più. Letteralmente, lo giuro. Mi spiace perché il libro l'ho pagato caro e ogni volta che lo vedo sul comodino rimpiango di essermene rimasto a casa a guardare una puntata di qualsiasi cosa invece di essere uscito a fare il figo in una libreria.
Una lettura piacevole. Non è un vero trhiller, ma la storia di Mickey, del suo essere una poliziotta con una storia familiare molto faticosa, di essere una madre, di essere sola, è una crescita, una rinascita.
Rinascita, possibilità dove ci sono solo degrado e discariche, dove l'infanzia è abbandonata, dove cercare una dose diventa una priorità.
Rinascita, cercando una speranza, una luce, e il finale del libro apre proprio un nuovo capitolo...una possibilità.
Ripensandoci è quello che attendiamo tutti oggi, anche se non c'entra nulla con il libro, ma talvolta le parole si inseguno ed incastrano, trovano una "sorellanza" che ti porta a riflettere anche se non sei sotto i cieli di Philadelphia e non devi rincorrere un assassino a una nuova vita....
Rinascita perchè rincorriamo un tempo migliore, un bisogno di "fratellanza" e nuove possibilità, come quelle che ti offre un libro assolutamente lontano da qualsiasi riflessione filosofica o intima.....ma è proprio la bellezza dei libri.
Anche se a tratti didascalico (effetto della scrittura in prima persona secondo me, che costringe a raccontare a te stesso ciò che non ti racconteresti mai, ameno non per filo e per segno, solo perché sei costretto a raccontarlo a tua volta ai lettori) “I cieli di Philadelphia” è in ogni caso la conferma delle qualità espresse da Liz Moore con “Il peso”, sua opera prima.
Meno intimista, dal respiro più ampio, offre uno sguardo più aperto, che guarda non più solo all’interno delle case e ai suoni muti dell’esistenza, agli incontri fortuiti che salvano dalle solitudini esistenziali e alle alleanze inaspettate, ma anche fuori dalla porta di casa, per le strade del proprio mondo.
È così che una scrittura che avrei potuto definire “indoor”, che spingeva a guardare le ormai famose “luci delle case degli altri”, si trasforma per uscire “outdoor”, senza mai perdere accuratezza e capacità descrittiva o ricchezza di chiaroscuri, e ci induce a guardare ai margini delle strade, agli angoli e agli incroci delle stesse, a voltarci indietro per riconoscere non solo le vetrine e i semafori o le targhe delle vie, ma anche a cercare di incrociare gli sguardi dell’umanità derelitta che le occupa silenziosamente e abusivamente; e la storia di Michaela, “Mickey”, poliziotta a Philadelphia nel distretto di Kensington, che si mette alla ricerca della sorella Kacey, tossicodipendente che si prostituisce sui marciapiedi dell’Avenue, scomparsa appena prima che qualcuno inizi a uccidere altre prostitute, che vive sola e con un bambino, fra mille difficoltà quotidiane, diventa il pretesto per Moore per raccontare non solo una storia americana dalle dinamiche familiari disfunzionali, ma anche una storia americana di degrado urbano e abbandono sociale, di corruzione e inganno.
Apparentemente lineare, apparentemente semplice, apparentemente scontata, la trama intrecciata da Liz Moore (che scorre sul doppio binario dellallora e dell’adesso che scandiscono la suddivisione dei periodi durante la lettura), non porta mai dove sembra possa portare, così come i labirinti in cui Mickey si insinua non offrono mai le risposte che è convinta di aver trovato.
Le strade e i cieli di Philadelphia, e di Kensington, diventano così le vere protagoniste di questo romanzo che non è solo una detective story ricco di venature noir e colpi di scena, o un romanzo familiare in cui le generazioni e i legami si scontrano e si confrontano e le relazioni personali mostrano i limiti e la diffidenza su cui si fondano, ma anche una storia in cui sono le istituzioni, con le loro assenze e connivenze con il crimine e l’assenza di giustizia, a essere messe sotto accusa.
Liz Moore a fine romanzo, si dichiara debitrice nei confronti dell’opera fotografica di Jeffrey Stockbridge, che ha dedicato gran parte della sua vita a fotografare Kensington e che nel 2009, scrive Moore, mi ha raccontato quartiere. Senza le sue storie non avrei mai scritto questo romanzo.