Non ci sembra di poter esercitare un grande controllo su ciò che balza in superficie dall’inconscio. Ma non è così. Se possiamo controllare il contesto in cui la cognizione rapida ha luogo, possiamo controllare la cognizione rapida. Possiamo evitare che chi combatte una guerra, chi lavora in un pronto soccorso o chi pattuglia le strade commetta degli errori.
«Se andavo a vedere un’opera d’arte, chiedevo al mercante di coprirla con un panno nero e toglierlo quando mi vedeva entrare, così, bang, potevo concentrarmi totalmente su quello specifico oggetto» racconta Thomas Hoving. «Al MET, quando pensavamo di comprare una cosa nuova, dicevo alla segretaria o a un altro curatore di prenderla e metterla da qualche parte dove sarei rimasto sorpreso nel vederla, in un guardaroba per esempio, così aprivo la porta ed era lì. Allora, o ne avevo una buona impressione, o vedevo all’improvviso qualcosa che prima non avevo notato.» Hoving, insomma, attribuiva tanto valore ai frutti del pensiero spontaneo che adottava speciali misure per assicurarsi che le sue prime impressioni fossero le migliori possibili. Non pensava al potere dell’inconscio come a un potere magico, ma come a qualcosa che poteva proteggere, controllare e educare. E quando diede la prima occhiata al kouros, era pronto.
Che ora nelle orchestre sinfoniche vi siano delle donne non è una cosa da poco. È importante perché ha aperto un mondo di possibilità a un gruppo che ne era escluso. Ed è importante anche perché, mettendo al centro dell’audizione la prima impressione, il giudizio basato unicamente sul talento, ora le orchestre assumono musicisti migliori, e musicisti migliori significano musica migliore. E come abbiamo ottenuto musica migliore? Non ripensando l’intero sistema della musica classica o costruendo nuove sale da concerto o impegnandoci milioni di dollari, ma facendo attenzione a un dettaglio minimo: i primi due secondi delle audizioni.
Quando Julie Landsman fece la sua audizione per il posto di primo corno, alla Metropolitan Opera di New York i paraventi erano un’assoluta novità. Allora non c’erano donne nella sezione ottoni dell’orchestra, poiché tutti «sapevano» che le donne non potevano eguagliare gli uomini nel suonare il corno. Ma la Landsman si sedette e suonò, e suonò bene. «All’ultimo giro di audizioni sapevo di aver vinto prima che me lo dicessero» racconta. «Per come avevo eseguito l’ultimo pezzo. Avevo tenuto l’ultimo do acuto molto, molto a lungo, proprio per non lasciare loro nessun dubbio. E s’erano messi a ridere, perché andava ben oltre a ciò che era richiesto.» Ma quando fu dichiarata vincitrice e uscì da dietro il paravento, nella giuria si udì come un rantolo. Non soltanto perché era una donna, e le donne che suonavano il corno erano rare, com’era successo a Abbie Conant. Non soltanto per quell’audace, lungo do acuto, un suono «macho» che si sarebbero aspettati solo da un uomo. Ma perché la conoscevano, avendo già suonato alla Metropolitan Opera come sostituta. Eppure, finché non l’avevano ascoltata solo con le orecchie, non s’erano accorti di quanto fosse brava. Quando il paravento creò un momento da pura prima impressione, accadde un piccolo miracolo, un piccolo miracolo che può sempre accadere quando ci prendiamo cura dei primi due secondi: la videro per ciò che era realmente.